Sanremo, o della memoria

Sanremo, o della memoria

Lo scorso anno scrivevo per Link questo pezzo. Chi l’avrebbe mai detto che, un anno dopo, Il Sanremo del 2020 sarebbe diventato l’ultimo ricordo di un mondo prima della pandemia?

Il Festival della canzone italiana non è solo un insieme di canzoni, un programma televisivo, un rituale condiviso. Ma è una fucina inesauribile di memorie, ricordi, esperienze che si conservano nel tempo.

Uno dei ricordi più vividi che ho di Sanremo non è davanti alla tv. Sto andando a ballare – è sabato sera – poco fuori Milano. Seguo già per lavoro il Festival, ma Europa, il mio giornale, non esce domenica e mi risparmio la visione: sì, succede. Mentre sono in macchina, apprendo dai social l’annuncio del podio che si gioca la vittoria: Mengoni, Scanu, Pupo-Emanuele Filiberto-Luca Canonici. Vengo a sapere anche della protesta degli orchestrali, allora chiedo al mio amico in macchina con me di accendere la radio. O è il contrario? La radio era accesa e alla protesta degli orchestrali ho sbirciato i social? Il ricordo c’è, ma fluido. Non ho mai visto in diretta il lancio di spartiti dell’orchestra indignata, ma nella mia memoria ho impressa l’immagine dei fogli bianchi volanti. L’ho vista dopo? La sto ricostruendo grazie a quello che so? Importa davvero? La verità è che io ricordo. Sì, “ricordo” quella serata che avevo voluto evitare.

Ho molti ricordi veri, possibili, plausibili del Festival fin da bambina. Cantare tutti i brani inventando la musica, con Tv Sorrisi e Canzoni in mano. Urlare Maledetta primavera (non è possibile, non avevo manco due anni quando la Goggi la presentava all’Ariston). Apprendere della morte di Claudio Villa nella vecchia casa dei miei, nel mio lettino. Ricordo anche la prima volta che il Festival divenne luogo concreto, quando ho iniziato a seguirlo dalla sala stampa dell’Ariston. Il ricordo di Sanremo mutava allora in qualcosa di ancora diverso: memoria di amicizie e relazioni professionali, memoria “storica” da dietro le quinte, memoria di una dimensione giornalistica diversa da ogni altro festival. Ricordo la stanza di una casa di riposo per anziani dove mi è capitato di stare un anno a prezzo modico (Sanremo è quasi più caro del Lido durante la Mostra, ci si arrangia). Ricordo quell’altra casa, condivisa con tre amici, che aveva in sala un dipinto della Madonna e l’inginocchiatoio. Giuro. Sì, mi ricordo.

Settant’anni di Sanremo, di storia d’Italia, di memoria collettiva. Quarant’anni miei, di storia mia, di memoria mia. Si intrecciano, si separano, si sovrappongono. Si fondono e confondono. Non starò a elencare qui la lunga bibliografia dedicata alla tv e ai media come creatori, propagatori e luoghi di memoria. È ormai un luogo comune. Eppure è bastato chiedere qua e là ad altre persone “cosa ricordi di Sanremo?” per scoprire come questo luogo comune faccia scoprire ancora tanto. Naturalmente, quella che leggete qui è una ricerca parziale, non scientifica. Il campione di persone da me interrogate è il mio campione, quello a me più vicino per parentela, età (generazione dai 35 ai 45 anni, pochi anziani, nessun giovanissimo), relazioni amicali e lavorative, nessun “nuovo italiano” (sarebbero uno spaccato interessantissimo). Un campione che alla domanda “se ti dico festival, qual è la prima cosa che ti viene in mente?” è andato quasi sempre a pescare il ricordo d’infanzia, perché le prima volte da bambini sono quelle che impattano di più e perché la memoria a un certa età tende a essere nostalgica (ma pure un dodicenne mi ha detto “ricordo mia madre con i suoi amici, eravamo in campagna, e c’era un rapper che mi piaceva, Moreno”, insomma pure lui ha già una memoria storicizzata). Un campione speciale perché, dato il lavoro che faccio, frequento di più chi ha familiarità con la cultura pop e popolare. Un campione che non vale statisticamente nulla, o magari qualcosa sì: un pezzettino di memoria che forse suona familiare a tutti e spiega cosa sia il Festival di Sanremo.

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