Il Coronavirus immaginario. E isterico. Da Manzoni a Sanremo.
Coronavirus è Immaginario.
È come Sanremo.
È come molti altri temi o eventi, che abbiamo in questi anni affrontato così: con l’isteria.
In questi giorni è scattata quella dinamica del contagio che abbiamo già visto all’opera molte e molte volte tra Istituzioni/Politici e Sistema Informativo. Tralascio i social anonimi, mi concentro sui professionisti da entrambi i lati. Il fuoco e la benzina, e viceversa. Un tipo di dinamica che va avanti da anni, e che ha molti motivi (e ci porta anche alle fake news, come racconto qui). Molti nostri media, ma anche quelli di altri paesi, sono ormai dominati da un linguaggio drammatizzato, populista, allarmista, lo stesso di molti politici. Quale dei due sia nato prima non si sa, diciamo che si rafforzano a vicenda ormai.
La crisi Coronavirus “dal vero” nasce nel momento in cui, a fronte di diversi casi, il governo e le regioni iniziano a prendere misure, spesso seguiti da aziende e altri enti. E’ un procedere in ordine sparso, per molte ragioni, di scarsa preparazione sì ma anche di competenze territoriali. Non sta a me esaminarle. Sfugge la capacità di incanalare la comunicazione su vie razionali (le misure servono a contenere il contagio, a scaglionare la gestione negli ospedali dei malati, il Cornavirus non è letale, incide solo su certi pazienti etc). Tutto avviene come spesso capita di corsa, sull’emergenza. Non si è preparato il terreno prima. Improvvisano un po’ tutti. È come andare in conferenza stampa a Sanremo e non prepararsi bene cosa dire avendo 10 donne come ospiti, e parlare di “passo indietro”. Ovvio che si scatenerà di tutto, anche perchè dall’altra parte non vedono l’ora, e la polemica diventa subito dramma. O panico in questo caso.
C’è da chiedersi infatti se, anche preparandosi, la comunicazione potesse essere riportata dal sistema informativo in maniera non drammatizzata. Perché i media stavano “giocando” con un certo immaginario per il Coronavirus da mesi, utilizzando toni pulp.
In certi servizi prima del contagio da Coronavirus, pareva che solo i cinesi potessero ammalarsi (un pregiudizio etnico che si collega ahimè a un certo sentimento popolare e politico). Ecco i servizi in Paolo Sarpi, intervistando persone italiane, nate qui, qui da molti anni ma che avendo gli occhi a mandorla non potevano che essere “portatori di virus”. E adesso che gli infetti sono italiani, tutto fa ancora più paura perché “non previsto”.
Secondo, il Coronavirus era perfetto per giocare con l’immaginario catastrofico cinematografico e poi, rispolverando un po’ di studi, manzoniano. Intendiamoci, ovvio che certe immagini dalla Cina possano ricordare certi film. Ma se questa lettura pervade ogni articolo/servizio si sta spostando la percezione dello spettatore non sui fatti ma sulla fantasia, e per di più catastrofica. Ho visto servizi di approfondimento di Raiuno dedicati al Coronavirus con le interviste a Capua e Burioni, ma in mezzo le immagini di archivio dei Promessi Sposi. Le loro parole svanivano.
Il linguaggio drammatizzato dunque era un arnese già pronto, e veniva tirato fuori subito alla prima notizia sul numero dei contagiati. “Non trasformeremo l’Italia in un Lazzaretto” di Conte durante il sorgere dell’emergenza era la risposta (sbagliata) a quell’immaginario che era già pronto all’utilizzo, e così paradossalmente lo rafforzava. Ho visto titoli tipo “Nelle zone in quarantena si vive come durante la peste”. Sì, la peste, Manzoni, gli untori (con anche articoli su come trovare un nuovo termine più sobrio…), i super assaltati come forni… Anche il paragone con la guerra veniva spesso tirato in ballo. E poi: Italia infetta, Italia spezzata in due, Italia contagiata, Italia in ginocchio (Italia sì, Italia no, la terra dei cachi), PAURA AL NORD, Milano spettrale, recessione, contagi&morte… Le abusate parole del melodramma informativo diventano subito utili di fronte a istituzioni e politici che parlavano con troppe voci e non sempre chiare. Gli uni hanno contagiato gli altri, e viceversa. E hanno contagiato tutti. Anche me, certo.
C’è anche una questione di impaginazione, non solo dei giornali ma anche del web. Ecco gli aggiornamenti continui che servono a macinare contatti anche quando nuove cose non ci sono. Così però il lettore ha un senso di angoscia costante, di accelerazione verso il baratro, di precipizio totale. Come con le dirette concitate e le all news che raccontano aggiornamenti che tali non sono. Il ritmo viene spinto al massimo per ragioni tecnologiche ed economiche, ma anche perché ormai “si fa così”. Il ritmo drammatizza. (C’è poi anche il ritmo della redazione, che vista la crisi odierna e la velocità del web, impone poche persone e tanto lavoro, e così spesso più approssimazione purtroppo…)
I numeri, poi. E’ come per lo share di Sanremo. Si usano, si abusano, si interpretano a casaccio, senza contesto (Baglioni flop! Amadeus top!). Le autorità italiane hanno adottato un conteggio diverso da quello internazionale, e che si sta via via regolarizzandosi (qui Repubblica, qui Il Post). Cose che si sanno ora, certo. Ma la modalità con cui i primi dati sono stati comunicati sembrava la battaglia di share del sabato sera o i confronti tra le varie edizioni di Sanremo. L’aggiornamento costante con i pallini rossi dei contagiati: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 10, 30, 100! I morti per Coronavirus: 1, 2, 3, 5, 10! E l’aggiustamento di tiro qualche giorno dopo mostra che, anche su cose note, non si è voluto usare un tono normalizzante. Era chiaro fin da subito che i morti erano tali anche perché ricoverati per altre malattie. Mentre le Istituzioni provano a calmarsi, ecco la svolta, ecco che cambia lo share: dopo alcuni giorni, i morti non sono morti di Coronavirus, ma di altro…Conteggiamo i bambini! E quando la svolta sui dati è totale, si titola conteggiando i guariti. Però occhio allo spread! Lo spettatore è confuso, Sanremo è top o flop!? L’andamento mostra l’isteria del quadro, mostra come i numeri che paiono neutrali possano anche loro piegarsi al dramma, perché dipende sempre da come si comunicano. Cosa comunicare è sempre come comunicare, e vale per tutti, Istituzioni e Media (qui alcune idee di Alberto Puliafito). Certe parole invece di altre, impaginazioni e ritmo, non sono la notizia, il fatto, ma puntano subito a creare una e una sola percezione della notizia (sul tema delle narrazioni si legga anche Anna Zafesova)
La bolla istituzioni/media sta passando dal panico totale al non esagerate! (rimpallandosi l’accusa a vicenda). Anche questo confonde, anche questo però l’abbiamo già visto per tanti altri temi (da Amadeus ai tweet di Salvini, etc). La verità sta nel mezzo, “La verità è che nessuno conosce come andrà a finire. Il principio di precauzione, se applicato bene, non sarà mai apprezzato abbastanza, se il problema sanitario poi non si verifica. Mentre una sottovalutazione del pericolo, in presenza di un’epidemia fuori controllo, farebbe scoppiare la rivoluzione. La difficoltà di prendere la giusta decisione è un sottile filo che lega questi due estremi” (qui l’articolo). Non sapere come andrà a finire ovviamente è la cosa che fa più paura di tutte, e che non siamo abituati a gestire. Per questo anche è meglio a volte credere o al disastro o al “non è nulla”, è più rassicurante (vedi anche Antonio Scurati). Lo sono perfino i complotti a questo punto (È stato Trump! È sfuggito dai laboratori cinesi!)
Su Netflix potete recuperare Grégory. Una docuserie sulla morte di un bambino in Francia negli anni 80 (ne parlo anche qui). Ebbene, quello che salta fuori è che il caso non fu risolto non solo perché polizia, giudici, avvocati (le istituzioni) pasticciarono, ma anche perché i giornalisti si volevano non cronisti ma protagonisti, poliziotti, giudici, avvocati, forse pure vittime e carnefici, diffondendo e inventano narrazioni e ipotesi, e inquinando indagini e opinione pubblica. Erano gli anni 80 e non è un caso, erano gli anni in cui la notizia iniziava a diventare una merce di intrattenimento. Non era per forza un male, anzi. Solo che adesso forse il melodramma a tinte forte prevale su tutto il resto.
L’analisi qui è parziale, ovvio, per raccogliere tutto ci vorrebbero mesi, e sarebbe credo in futuro una bella ricerca. Ad esempio il vocale via WhatsApp che ha creato il panico nei super milanesi credo possa essere un caso interessante per capire le dinamiche della comunicazione parallela: ci crediamo a quel vocale perché istituzioni/media hanno preparato il terreno all’allarme. Bombardati di drammi, regrediamo. E crediamo a tutto, soprattutto alla fake news perché sono uguali al tono di molti politici e molti giornalisti (succede in molti paesi). Siamo soggetti suggestionabili, siamo come bambini, forse siamo sempre rimasti quelli là, i contadini della Grande Paura durante la Rivoluzione Francese…
Per fortuna ci sono anche le narrazioni sdrammatizzanti intese come comiche, cioè quelle narrazioni che di fronte alla paura la guardano da fuori e non la cancellano, ma ne abbassano la percezione per sollevarci un po’. Usano l’immaginario per capovolgerlo, e in fondo non dimentichiamoci che tutto accade a Carnevale. I meme di questi giorni, perfino i più stupidi, che ci siamo passati in chat, ne sono la prova. Per questo ne ho usato uno come immagine di apertura.
Ps Vi ricordate Salvini al citofono e le telecamere pronte a rilanciarlo? Non ho fatto in tempo a chiudere questo pezzo che vedo Zaia e “i topi mangiati vivi dai cinesi” e Fontana e “non prendete in giro la mia mascherina”, due video rilanciati sulle homepage dei giornali. Esibizionismo (non notizie) che serve agli uni e viene rilanciato dagli altri. Ci vorrebbe un po’ di serio oblio.