Intervista agli autori de Les Revenants

Emmanuel Carrère

 

Incontro lo scrittore per un’intervista il 20 marzo 2015 a Locarno, durante il festival L’immagine e la parola, che gli dedica incontri, conferenze, proiezioni. Carrère è molto disponibile e generoso nello sviscerare gli snodi narrativi di una serie che l’ha visto protagonista, ma che ha ormai lasciato.

 

Su che meccanismo narrativo si basa Les Revenants?

 

Quando ho cominciato a scrivere, c’era già un progetto avanzato. Diversi sceneggiatori avevano già lavorato su quel materiale, molto era già stato deciso. Alla base del racconto, più che una domanda, c’è qualcosa di già dato, un fatto: alcuni morti tornano in vita. Non c’è nessuna spiegazione: non si sa perché queste persone rispetto ad altre, sono morti in momenti differenti… insomma, non c’è una logica apparente. Siamo davanti a questo fatto, è come porre un’ipotesi e osservare le reazioni delle persone, tanto dei vivi e quanto dei morti che non sanno di esserlo. Questo dato di fatto è il carburante della narrazione, ed è molto potente. È una situazione drammaturgica e romanzesca straordinaria soprattutto nel momento in cui viene presa sul serio. Ovvero se non la si accetta come una convenzione, come se fossimo in un film di vampiri o zombi. Perché in quel caso sarebbe una cosa infine normale, insita nel genere scelto. Qui invece bisogna restare con la convinzione che tutto questo non è normale, in modo da mantenere questo senso di stupore.

 

Come ha lavorato con Gobert?

 

Ho subito insistito affinché i fatti narrati nel primo episodio della serie fossero raccontati in due o tre episodi. Bisognava rallentare. Non bisognava esaurire la storia in poco tempo, bisognava mantenere le scene lunghe.

Bisognava permettere ai personaggi e agli spettatori di esplorare questo stupore, il vero motivo del racconto. Una volta superato questo stadio, la serie diventa ben più difficile da scrivere perché si accumulano i prodigi e dunque sorge un bisogno di spiegazione.

 

Un meccanismo difficile da portare avanti…

 

Sì, molto. È stato ad esempio il problema di una serie eccezionale come Lost, che ha avuto una sorta di fuga in avanti e un’aggiunta continua di misteri. Si era convinti che alla fine gli autori avrebbero spiegato tutto, ma è difficile poterlo fare. Per quanto riguarda Les Revenants, non è stato spiegato proprio nulla. E anche volendo cambiare rotta, e magari utilizzare una nuova idea, è difficile farlo proprio per quel che c’è stato prima. Rischi di contraddirti. È ben diverso dalle serie realistiche: lì decidi cosa accade ai personaggi la prima stagione e poi la seconda sarà la sua continuazione logica, è la vita che va avanti. È una difficoltà d’altro tipo, ma non si ha il problema strutturale come ne Les Revanants. È però anche la vera sfida di una serie così.

 

La serie affronta temi come la religione, la resurrezione, la morte…

 

Sono temi che possono essere sicuramente affrontati in una serie tv. E abbiamo fatto bene a non essere espliciti, anche se l’interrogativo religioso è presente. Può darsi che io abbia portato alla serie una coscienza della storia religiosa più forte, perché Gobert ne ha una coscienza meno esplicita.

Abbiamo differenziato il catalogo delle reazioni umane a questo evento sovrannaturale: c’è chi è così spaventato da suicidarsi, c’è Claire che, influenzata da Pierre, ha davvero un’attitudine religiosa, come se una preghiera fosse stata esaudita. Ma come in molti racconti poi si scopre che la cosa peggiore che possa accadere è che i propri desideri vengano esauditi. Una scelta un po’ perversa ma giusta è di mostrare che l’unico vero scettico là dentro è il prete, che parla della resurrezione delle Scritture come qualcosa di simbolico!

 

Fabrice Gobert

 

Impegnato nella realizzazione della seconda stagione della serie, Fabrice Gobert riesce a concedermi un po’ del suo tempo a riprese finite, il 7 maggio 2015. Molto gentile, risponde dettagliatamente per quasi un’ora collegato da Parigi in videochiamata.

 

 Per la creazione della serie, si è ispirato alla tv degli Stati Uniti? In che modo invece Les Revenants è un prodotto europeo?

 

Mi sono ispirato a certe serie statunitensi, le mie preferite, che però non avevano nulla a che fare con il genere fantastico.

Così ho moltiplicato le fonti d’ispirazione: ad esempio la letteratura fantastica americana, Stephen King e Bret Easton Ellis. Le fonti sono state anche cinematografiche, come Lasciami entrare, un film capace di miscelare sovrannaturale e realismo. Anche il film di Compillo era così, dovevo quindi far sorgere il sovrannaturale da una situazione realista. Bisognava utilizzare più fonti possibili, ma il problema è che in Francia non c’è una grande tradizione di genere fantastico. In un film o in una serie americana, se un morto torna in vita pensiamo subito a uno zombi, abbiamo come riferimento un genere narrativo conosciuto. In un film o serie francesi è più complicato, non può essere così immediato. Ho iniziato allora a pensare a un luogo francese eppure capace di ricordare il cinema statunitense. Così, nella serie, ci sono spazi totalmente francesi, come la mediateca, e altri dal sapore americano, come il Lake Pub e l’American Dinner, che pure esistono nel nostro Paese. Ho scelto così dei luoghi totalmente familiari eppure allo stesso tempo capaci di far sorgere la finzione, perché legati a un immaginario statunitense.

 

 Questa cittadina non ha un nome. La sua geografia non è chiara. Un luogo perfetto per l’apparizione dei ritornati…

 

Ho molto insistito affinché non avesse nome. E’ semplicemente la ville, la città. Volevo che fosse senza nome perché esiste e non esiste.

E’ ovunque e in nessun luogo. Più si va avanti con le puntate, e più ci si rende conto che siamo in un luogo di finzione. La geografia pare precisa perché i luoghi sono reali, ma in verità non è così. C’è come una geografia interna e singolare che non appartiene alla realtà ma solo al mondo della serie.

 

Dopo la morte dei loro cari, i vivi paiono galleggiare in una dimensione parallela. E’ questo il senso del lutto?

 

La cittadina è colpita dal lutto. Non so se è una dimensione parallela, ma sembra disconnessa dal tempo e dal resto del mondo. E’ rivolta su se stessa, e sulle disgrazie accadute in precedenza. Ha smesso di vivere. E’ come bloccata. Le persone che vi abitano forse sono più portate ad accettare l’irrazionale proprio perché la loro vita non ha più senso. Quello che gli interessa è poter tornare in contatto con i loro cari morti.

 

Creatore, sceneggiatore, regista: siete quello che negli Stati Uniti viene definito showrunner. Come avete gestito questo ruolo atipico in una produzione europea?

 

In Francia questo ruolo non esiste veramente. Però va adottato sempre più, hanno ragione gli americani. E’ un metodo che aiuta a essere veloci, e a fare bene. Non è stato del tutto così per Les Revenants. All’inizio ho scritto da solo. Poi con Emmanuel Carrère, poi con altri due sceneggiatori. Per la seconda stagione, ho dovuto sempre dedicarmi tanto alla scrittura quanto alla realizzazione: non potevano avanzare in parallelo. Questo spiega anche il ritardo della nuova stagione, che arriva a tre anni dalla prima. E non è un bene per una serie. Però ho sempre pensato che fosse indispensabile lavorare su entrambi gli aspetti per ottenere una forte coerenza. Ci vuole una persona che coordini tutto: una serie è un appuntamento con lo spettatore, bisogna essere al meglio. Non posso dire di essere stato uno showrunner puro perché per me è la figura che riesce a organizzare la scrittura e la produzione di un tot episodi l’anno con un ritmo costante. Ho però preso parte a ogni fase di Les Revenants proprio perché penso che sia il modo migliore per portare avanti una serie.

 

Nel crearla si è concentrato sulla struttura, sui personaggi o sul tema da raccontare?

 

I produttori avevano lavorato con altri autori, ho avuto la possibilità di usare parte di quel materiale. Il vero punto centrale è la premessa, il ritorno di una persona cara dalla morte, perché questo evento suscita reazioni diverse. Una donna che vede tornare il suo amante non può reagire come una famiglia che assiste al ritorno di una figlia. Così abbiamo una serie corale in cui però ogni personaggio porta avanti un suo tema, sebbene sempre legato al ritorno dei morti e al lutto. Alcune storie c’erano nelle sceneggiature già elaborate, come quella delle due gemelle: un’idea fantastica, ma non posso appropriarmene perché c’era già. Così come quella della donna che vede tornare il suo giovane innamorato dopo essersi rifatta una vita. Partendo dalla premessa, e da qualche elemento già esistente, ho iniziato a ragionare sui personaggi. E’ così arrivata l’idea di un bambino in cerca di una sorta di madre adottiva. E’ una figura perfetta: da un lato rappresenta l’innocenza – è solo e perduto – dall’altro però incute timore –  spesso nei film e telefilm d’orrore il bambino è una sorta di diavolo sotto mentite spoglie. Avevo però anche bisogno di personaggi più “fisici”, posti in un registro diverso rispetto agli altri, più bestiale e se vogliamo spettacolare. E questo sono i due fratelli…

 

 Per certi versi, ricordano molto le atmosfere di Psycho…

 

Sì, il riferimento è quello. E anche certi film di John Carpenter. Quello che volevo era prendere questi elementi e proporli in un contesto totalmente francese. Non volevo certo mettermi in competizione con quei capolavori, che sono però splendide fonti d’ispirazione per creare un personaggio.

Certo, gli animali impagliati ricordano Psycho, ma Serge e Toni sono due cacciatori, e quindi queste presenze sono del tutto logiche.

Tornando alla domanda precedente, inizialmente il lavoro è stato sui personaggi, cercando di trovare di volta in volta reazioni differenti di fronte al ritorno dei morti. Quando è arrivato Carrère avevo scritto già i primi due episodi. Con lui ho lavorato sui personaggi in rapporto alla morte, alla religione, al fantastico. Carrère ha evidenziato subito una cosa: quello che accade ai personaggi è talmente eccezionale che bisognava seguire le loro reazioni in tempo reale. Così ogni episodio è un giorno: ci siamo presi il tempo necessario per raccontare quel che passava nella testa dei personaggi. Sono persone normali, secondo la lezione di Alfred Hitchcock, calati in una situazione fantastica, e ognuno ha una reazione diversa.

 

Hitchcock utilizzava spesso l’espediente del Mac Guffin: qualcosa di importante per i personaggi che però si rivela qualcosa di non così eccezionale una volta spiegato agli spettatori. La rivelazione finale era raramente il fulcro dei suoi film (un’eccezione in parte è ad esempio Psycho), contava creare suspense. E per lei? Gli interrogativi sollevati ne Les Revenants sono più importanti della risposta alla domanda sul ritorno in vita dei morti?

 

Amo molto questa tecnica, vale molto per un film. Per una serie è simile. Me ne sono reso conto quando ho iniziato a lavorare sui personaggi dei ritornati. Il perché tornassero in vita non è stato inizialmente oggetto di conversazione con i produttori. In una serie come questa, data anche la sua lunghezza, bisogna rispondere il più tardi possibile alle domande sul ritorno dei morti poste dagli altri personaggi. E’ per il bene dello spettatore. E questo varrà ancora di più per la seconda stagione: tutti cercheranno di trovare una spiegazione, e quello che mi piace e che ognuno dei personaggi avrà una visione differente.

 

Per Carrère la serie va oltre certe regole di genere. Così la resurrezione si pone anche all’interno di un’altra tradizione, quella cristiana. Come avete lavorato su questo aspetto?

 

Quello che mi interessava era trattare questo tema attraverso i personaggi. E le loro domande. Ho riletto certi passaggi della Bibbia. Il prete ad esempio è un prete moderno, che considera le Scritture un aiuto per convivere con il lutto e per affrontare le contraddizioni della vita. E’ perplesso, non è pronto a credere in una resurrezione concreta. Pierre al contrario si è preparato al ritorno dei morti. E’ qualcosa in cui spera, che attende. Il tema della “resurrezione” parte da Gesù e arriva fino ai film di Romero. Abbiamo cercato di mantenere anche i riferimenti cristiani. Così quando Camille racconta dell’aldilà non fa certo riferimento, lo capiamo bene, a una sua esperienza personale, ma a quello che ha letto e sentito in precedenza.

 

 Pierre rappresenta la fede. Thomas invece cerca una spiegazione razionale. Alla fine però vincono i sentimenti, l’amore…

 

Sì, è l’emozione che predomina, e sarà ancora più vero per la seconda stagione. Rifletteremo più sull’amore che sulla morte.

Sono i sentimenti che contano, più forti della morte. Pensiamo al mito di Orfeo ed Euridice, e a quello che significa: possiamo richiamare qualcuno dalla morte, e continuare a pensare a lui? E lui vive attraverso di noi? In fondo è quel che raccontano anche film hollywoodiani come Ghost. Alla fine i personaggi non devono venire a patti con la causa del ritorno dei morti, ma con quel che provano ancora per loro. L’amore è la cosa più importante. I morti infatti ritornano per ricordarci che la vita deve essere piena di passione.

 

Torna anche spesso il tema del suicidio…

 

Perché penso che la vita sia ben più spaventosa della morte. E’ così anche per i personaggi vivi della serie. Ho giocato con questa idea, e ho riflettuto su questa frase: «E se la morte non fosse la cosa peggiore?». I vivi pensano con dolore ai loro cari defunti, e vivono con la paura della morte. Tutti i personaggi si interrogano sulla frontiera tra vita e morte, in maniera allo stesso tempo romanzesca (sono come prima?, possono morire di nuovo?, etc) ma anche metafisica, perché riflettono sull’idea stessa di esistenza, su cosa siano la vita e la morte. Eppure è una conseguenza della premessa del racconto: ci siamo sempre concentrati sulla storia e i personaggi, non siamo partiti cercando di inglobare a forza una riflessione metafisica.

 

C’è anche una riflessione su qualcosa di molto reale: la rottura della diga fa riferimento anche a fatti di cronaca precisi. Il tema è il rapporto tra uomo e natura…

 

L’uomo non accetta le regole. La diga è una minaccia permanente per gli abitanti della cittadina. E’ un modo per addomesticare la natura, ma quest’ultima è più forte. Un tema importante. L’uomo spesso maledice l’esistenza stessa della natura. Non accettiamo le regole della natura, e in fondo una delle sue regole principali: la morte. Per questo raccontiamo la storia di alcuni morti che tornano in vita. L’uomo costruisce una diga disprezzando la natura, causa una tragedia ma poi non ne sopporta il peso.

 

Come avete lavorato sullo stile visivo?

 

Per far sorgere il fantastico da un contesto realistico bisogna girare in una certa maniera. I produttori mi hanno scelto dopo aver visto il mio primo film, Simon Werner a diparu, nel quale avevo cercato di creare l’atmosfera di film fantastico americano.

Per la serie, mi sono ispirato anche a Gregory Crewsdon, capace di rendere bizzarre cose banali.

Non avevamo molto tempo, in tv è diverso dal cinema, così alcune inquadrature potevano essere più spettacolari altre meno per poter rientrare nei tempi di produzione. Abbiamo filmato in modo da aver sempre presente le montagne per mostrare che la città è circondata. E poi abbiamo girato spesso nel momento in cui la luce del sole declina – un momento cerniera – per creare un’atmosfera sospesa tra il giorno e la notte, tra la vita e la morte…Questo ha creato una sorta di unità tra tutti i luoghi, e ha donato una sensazione particolare, come se le cose non fossero mai chiare del tutto, ma anzi vi fossero sempre zone di penombra. Per raccontare una storia simile, bisognava infatti cercare una forte stilizzazione.